Continua la mia rubrica dedicata alla mia storia imprenditoriale. Con questo secondo capitolo discuterò di un tema a me molto vicino: ossia dell’importanza di comprendere la differenza fra essere un manager e quella di essere un imprenditore.
[hr height=”15″ style=”zigzag” line=”default” themecolor=”1″]
Come anticipato nella prima puntata di questo articolo (che puoi trovare cliccando qui), questo articolo fa parte di una collana inedita e da me redatta, che ho deciso di suddividere in più puntate. Questo per agevolare la lettura, ma anche per lasciare il giusto tempo per permettere ai lettori di digerire questi nuovi concetti.
Gianluca Stocco.
Genitore o Manager?
Oggi ho il piacere di raccontare un episodio alquanto particolare della mia vita come imprenditore a capo dell’azienda che ho costituito. Infatti, quando ho fondato Normachem Srl era abbastanza ovvio che le mie aspettative di successo fossero le più rosee, ma certamente non avevo previsto uno sviluppo ed una crescita dell’azienda in modo così importante come poi è accaduto.
Il dover ritrovarsi a gestire un’azienda che cresceva in modo così repentino comportava, senza ombra di dubbio, il dover affrontare diverse tematiche che in fase di start-up non vengono attentamente considerate o, almeno, io non l’avevo fatto con la giusta attenzioni.
Infatti, quando mi sono ritrovato a gestire la forte e costante crescita di Normachem, non solo ero chiamato a organizzare e confrontarmi con un numero sempre maggiore di collaboratori con diverse esigenze, ma soprattutto dovevo (e volevo) gestire la loro crescita professionale in modo strutturato e coerente con gli obiettivi aziendali, sostenendo e supportando un processo di integrazione e armonizzazione tra persone di cultura e provenienza spesso diverse.
Se da una parte questa crescita mi stava dando grandissime soddisfazioni, dall’altra mi metteva difronte a delle tematiche che, come accennavo poche righe sopra, non avevo affatto previsto: la complessità delle relazioni con i miei collaboratori, le loro attese e difficoltà, i conflitti e la sempre più forte necessità di lavorare in piena autonomia.
Tutto questo in breve tempo è diventato uno degli impegni che sempre di più impegnavano il mio tempo e le mie energie. In modo quasi naturale e spontaneo ho iniziato ad affrontare tutto questo cambiamento con una gestione che mi piace raffigurare come quella di un “genitore affettivo“: sempre a disposizione e che cercava di mediare i conflitti proteggendo e tutelando al contempo tutti i collaboratori.
Il mio impegno era quello di esserci praticamente sempre e per tutti, garantendo ascolto e attenzione. Presidiavo ogni processo di lavoro e ricevevo continue richieste di presenza e confronto. In questo modo il tempo da me impiegato nella gestione delle persone, nella gestione delle discussioni e dei conflitti tra i dipendenti – che si rivolgevano a me per ogni difficoltà – aumentava esponenzialmente con la crescita dell’azienda e delle nuove assunzioni. Mi scontravo sempre di più con la fatica di far crescere autonomia e responsabilità nel personale. Il mio ruolo diventava sempre più complesso, stressante e cominciavo a pensare che forse i collaboratori non fossero abbastanza adeguati, oppure che non fossero autonomi come desideravo.
Tutto questo mi ha portato a situazioni di fatica e sconforto, ma è stato grazie a questa situazioni di sofferenza se sono riuscito a trovare la strada per attivare un lento e impegnativo cambiamento che portasse un giorno ad una mia leadership non più come genitore affettivo ma come manager.
Sembra un paradosso ma non lo è. Per diventare dei bravi manager “illuminati”, bisogna prima di tutto imparare ad essere manager di sé stessi. Questo significa dover partire per forza di cose dal comprendere quali sono le nostre principali paure che generano, anche inconsapevolmente, gli “schemi” relazionali d’azione più importanti nel nostro agire.
Scrivere tutto questo – e anche leggerlo – a distanza di tempo sembra semplice e riduttivo, come il voler trasmettere l’idea di un qualcosa di facile e banale. Ma vi assicuro che non è affatto così. Quando sei immerso in queste dinamiche si perdono i propri riferimenti e tutto quanto diventa nebuloso e complicato. Questo accade per il semplice fatto che la nostra cultura e la nostra forma mentale spesso ci portano a ricercare la causa dei nostri errori e malesseri al di fuori di noi stessi, incolpando additando qualcun altro. Invece non è sempre così. Già riuscire a rendersi conto che spesso e volentieri siamo noi stessi gli artefici delle dinamiche all’interno delle quali ci troviamo…beh è un’impresa piuttosto ardua.
Posso assicurare che tutto questo non è avvenuto casualmente dall’oggi al domani. La mia unica certezza era il mio stato di sofferenza e incapacità di gestire cose e situazioni che velocemente stavano diventando per me troppo grandi. Ma come scrivevo poche righe sopra, è proprio questo stato di sofferenza che trova origine spesso dai bisogni non soddisfatti a portare l’individuo (e in questo caso, me) a cercare qualcosa o qualcuno che lo aiuti a realizzare un cambiamento. Nel mio caso è stato il venire a conoscenza della disciplina della Padronanza Personale secondo il metodo Loghya.
Una volta conosciuto e sperimentato questo metodo su di me, ho sposato appieno il progetto che prevedeva di introdurre a tutti i livelli la Padronanza Personale, aiutandomi così veramente a migliorare la gestione della mia azienda. E’ forse inutile sottolineare come un’azienda guidata da un management più “illuminato” e centrato sui propri obiettivi e bisogni conduca a successi che prima non erano nemmeno immaginabili.
Tutto questo accadeva grazie a questa particolare e innovativa disciplina: la Padronanza Personale. Essa trae il proprio fondamento dall’assunto che molti tratti comportamentali, apparentemente statici e meccanici, in realtà si basano su schemi mentali radicati che condizionano il modo di comunicare, di perseguire gli obiettivi e di rispondere alle difficoltà. A volte queste abitudini sono utili, altre volte sono disfunzionali.
Comprendere la radice di questi comportamenti auto-limitanti per evolverli, ci posiziona in una condizione tale da individuare gli scopi orientando il meglio delle nostre energie per creare e muoverci in connessione con gli altri.
Grazie a questa disciplina applicata e integrata a diversi livelli aziendali, oggi siamo senza ombra di dubbio una realtà dove le relazioni e comunicazioni sia interne che verso l’esterno sono più fluide, dove la mission aziendale e le strategie ad essa connesse sono più chiare e dove tutti quanti noi, a seconda del ruolo e della posizione, possiamo sentirci sicuramente più LEADER.
Lascia un commento